Come spesso accade durante le opere di riassetto urbano, nella frazione di Cappella, al confine tra Bacoli e Monte di Procida, è stato rinvenuto un sito unico nel suo genere: una necropoli legata alla Classis Misenensis, la flotta più importante dell’Impero Romano, allora stanziata a Miseno. La scoperta è avvenuta nei primi anni Duemila, presso quella che attualmente prende il nome di Piazza Michele Sovente, in memoria del poeta nato e cresciuto proprio nella frazione di Cappella.

Cos’hanno portato alla luce gli scavi?

Un complesso di monumenti funerari disposti su due livelli e realizzati in diverse fasi, a seconda del periodo storico-artistico e dei diversi rituali che si sono susseguiti nel corso dei secoli. Gli ambienti più antichi presentano una pianta quadrangolare con volta a botte; al loro interno, di fronte all’ingresso, la parete centrale è decorata da un’edicola sormontata da un frontone, mentre le pareti laterali sono scandite una serie di nicchie. Prima del Cristianesimo, infatti, la pratica funeraria più in uso tra i romani consisteva nel bruciare i corpi dei defunti, per poi riporli all’interno delle urne. Queste, a loro volta, venivano poste all’interno della camera ipogea collettiva composta dai “colombari”: piccole nicchie sormontate da una cupola. Siamo intorno agli inizi del I secolo d.C., quando erano ancora in voga i riti pagani. Tra la fine del I e II secolo d.C la parte più antica fu completamente ricoperta, denotando il passaggio al rito cristiano che prevedeva l’inumazione dei corpi direttamente nella terra. Iniziò, quindi, la creazione di tombe in muratura con la realizzazione di nuove costruzioni per contenere un numero maggiore di deposizioni, oppure adattando quelle preesistenti alla nuova modalità di sepoltura. La necropoli ha mantenuto questa sua funzione, molto probabilmente, fino al V secolo d.C.

La grande scoperta delle decorazioni pittoriche.

Di grande interesse per gli studiosi sono le decorazioni pittoriche ritrovate nella parte più antica del sito. La prima decorazione che vediamo nel primo ambiente è quella di una menade danzante, adepta del dio Dioniso, con in mano una coppa di vino, simbolo di gioia della vita terrena, e il tirso, il bastone decorato da tralci di vite. La seconda, invece, è una raffigurazione della dea Selene, divinità di origine egizia, il cui mito si diffuse nell’antica Roma talvolta associata alla Luna. Tant’è che quella che spunta dal suo capo, quasi a mo’ di corna, è in realtà proprio una falce di Luna. La ritroviamo nei monumenti funerari perché espressione del concetto di un passaggio nell’aldilà meno doloroso, e dunque di una “dolce morte”. Secondo i Romani, Selene si innamorò perdutamente del giovane Endimione col quale ebbe numerosi figli. Ma non poteva sopportare l’idea di perderlo un giorno, e così lo fece sprofondare in un sonno eterno per poi andare a trovarlo ogni notte. Pare che Endimione dormisse con gli occhi aperti, per poter vedere l’apparizione della sua amata.

In generale, l’idea di resurrezione e di salvezza dopo la morte erano i concetti espressi anche dall’utilizzo di alcune monete, che sono state ritrovate nella bocca dei corpi sepolti negli ambienti della necropoli appartenenti alla seconda fase. Le monete poste dai familiari dei defunti dovevano rappresentare il cosiddetto “obolo di Caronte”, una sorta di pedaggio per essere traghettati verso gli inferi.

Cosa sappiamo dei marinai sepolti?

La copertura della necropoli ha dato la possibilità di conservare perfettamente il corredo dei militari, limitato ad uno o due boccalini in ceramica, e numerose iscrizioni. Grazie a queste si sono potute ricavare informazioni relative ai nomi e la tipologia delle navi attraccate al porto di Miseno, l’età dei mariani al momento del loro decesso e gli anni di servizio prestati alla flotta imperiale. Tra queste un’epigrafe di grande rilevanza è quella che riporta il nome di un marinaio, Tiberio Claudio Phoebo, molto probabilmente di origine asiatica, che per quattordici anni della sua breve vita è stato al servizio della Classis Misenensis nulla nave trireme di nome “Capricorno”. La dedica fu incisa da un sottoufficiale della stessa nave, Lucio Vibio Valente, che lo aveva nominato come suo erede prima di morire. Attualmente l’epigrafe è conservata presso il Museo archeologico dei Campi Flegrei, al Castello aragonese di Baia, ma è possibile vederne una stampa all’esterno del sito di Cappella, accanto alla planimetria generale.